Appunti sul testo - Sociologia dei processi culturali - utile per l'esame di Sociologia dei processi culturali e comunicativi.
Sociologia dei processi culturali
di Manuela Floris
Appunti sul testo - Sociologia dei processi culturali - utile per l'esame di
Sociologia dei processi culturali e comunicativi.
Università: Università degli Studi di Cagliari
Facoltà: Scienze della Formazione
Esame: Sociologia dei processi culturali e comunicativi
Titolo del libro: Sociologia dei processi culturali
Autore del libro: Loredana Sciolla
Editore: Il Mulino
Anno pubblicazione: 20021. LA NASCITA DEL CONCETTO SCIENTIFICO DI CULTURA
Il termine cultura è per tutti molto familiare e contiene in sé diverse sfumature di significato.
La prima intende la cultura come un attributo della persona colta, che ha cioè seguito un percorso più o
meno lungo di formazione e educazione individuale; la seconda si riferisce alla cultura come a un’insieme di
costumi, procedimenti tecnici e tradizioni (cultura regionale).
I due concetti sono tra loro in contraddizione, perché la cultura, come elevazione culturale e dello spirito,
non tiene conto dei costumi singolari, locali, condizionati dal contesto storico e ambientale, in quanto ha
pretese universali e vale per l’essere umano in generale.
La cultura dei popoli, invece, è sempre una cultura radicata e particolare.
I due usi comuni attuali della nozione di cultura si collocano in tappe diverse di una stessa evoluzione
storica, che riguarda però i paesi occidentali, dove il termine italiano cultura è simile a quello di altre lingue
(francese, spagnolo, inglese). Il concetto di cultura rivela la storia culturale della società occidentale, ed è
uno strumento che nasce in stretta relazione con l’esperienza e con il linguaggio, all’interno di un dato
contesto storico-sociale, con il compito di riuscire a farci comprendere qualcosa di noi e degli altri.
I due usi del linguaggio comune attuale si riferiscono a due concezioni della cultura che si sono affermate in
successione nel corso di secoli e che sono stati chiamate concezione umanistica o classica e concezione
antropologica o moderna.
Manuela Floris Sezione Appunti
Sociologia dei processi culturali 2. L'origine della parola cultura
La parola cultura ha un’origine latina, dal verbo colere, ed è usata già presso i romani in senso proprio per
indicare il lavoro della terra, la coltivazione dei campi, e in senso metaforico, figurato (Cicerone ed Orazio),
per sostenere che con l’educazione e la filosofia si può agire sull’animo umano ingentilendolo, raffinandolo,
trasformandolo da incolto a colto, così come si fa con i campi, che attravs il lavoro e la cura, da sterili
diventano fruttuosi.
È in questo senso figurato che il termine cultura ha contribuito a formare la concezione umanistica
(humanitas) che si diffonde nel XVIII sec e che arriva fino all’Illuminismo, spesso seguita da una
specificazione, per cui si parla di “cultura delle arti”, “cultura delle lettere”, etc..
Seguendo l’evoluzione della parola in francese, si evidenzia come l’idea di cultura rispecchia
l’universalismo e l’umanesimo dei philosophes; essa appartiene all’Uomo, senza alcuna distinzione, ed è
associata all’idea di progresso e alla fiducia che l’educazione possa migliorare e raffinare l’animo umano.
Con queste nuove connotazioni la nozione di cultura si avvicina, fino a sovrapporsi, a quella di civiltà e
civilizzazione.
Manuela Floris Sezione Appunti
Sociologia dei processi culturali 3. L'ideale umanistico della cultura
Nell’800 molti studiosi sostenevano ancora l’ideale umanistico della cultura. Tra questi Matthew Arnold,
letterato e pedagogo inglese, secondo cui la cultura rappresenta “quanto di meglio è stato pensato e
conosciuto” nell’arte, nella letteratura e nella filosofia. Più che un fine, essa è un mezzo per rendere più
umano un mondo minacciato dagli effetti dell’industrializzazione. Per curare i mali derivanti da essa Arnold
propone una terapia che ha al suo centro l’ideale greco della cura e il perfezionamento dell’uomo.
La cultura sta ad indicare questa tensione verso la perfezione.
In seguito questa concezione di cultura diventa l’essenza della “cultura alta”.
Col tempo la “cultura alta” comincia ad essere usata in opposizione alla “cultura popolare”, che sta ad
indicare le manifestazioni e le pratiche culturali delle classi sociali meno privilegiate.
La concezione antropologica della cultura ha la sua origine nel 700, quando alcuni pensatori tedeschi hanno
contrapposto all’universalismo dei Lumi, la particolarità e la varietà della cultura di ogni singolo popolo.
Herder (1774), nella sua polemica contro il razionalismo illuministico, afferma la diversità tra le culture; la
storia per lui non consiste nell’avvento di una ragione astratta e identica ovunque, ma nell’intreccio e nel
contrasto tra diverse individualità culturali, ciascuna delle quali costituisce una comunità specifica, un Volk,
in cui l’umanità esprime ogni volta, in modo insostituibile, un aspetto di se stessa.
Nel XIX secolo i pensatori tedeschi del romanticismo legheranno in maniera molto stretta la cultura all’idea
di nazione. La cultura è descritta come un insieme omogeneo di tradizioni, disposizioni morali e conquiste
intellettuali che esprimono lo spirito più profondo e autentico di un popolo. È questo patrimonio comune che
fonda l’unità della nazione. Si fa avanti l’idea che la nazione culturale preceda e fondi la nazione politica.
Manuela Floris Sezione Appunti
Sociologia dei processi culturali 4. L’ANTITESI CULTURA/CIVILIZZAZIONE
La nozione tedesca di Kultur, con l’importanza che attribuisce alle differenze nazionali e alla particolarità
delle singole culture, finisce per contrapporsi alla concezione umanistica e universale di cultura elaborata
nell’ambito del pensiero illuminista e alla nozione di “civiltà” e “civilizzazione”.
Norbert Elias, in un’opera pubblicata nel 1936, descrive l’origine sociale della contrapposizione tra il
termine tedesco Kultur e quello di civiltà/civilizzazione. Egli spiega l’evoluzione del significato della
nozione di cultura in Germania con il fatto che essa fu adottata dalla borghesia intellettuale tedesca nella sua
opposizione all’aristocrazia di corte. Sarebbe stato il risentimento degli strati intellettuali del ceto medio,
esclusi dal potere e dall’attività politica, a dare al concetto di cultura quei caratteri di autenticità e profondità
legati ai valori e alle prestazioni spirituali, scientifiche e artistiche che costituivano la loro legittimazione
specifica di ceto sociale. Il concetto di cultura viene dunque costruito, secondo Elias, inizialmente su un
terreno sociale, di opposizione ai comportamenti dello strato di corte, e solo successivamente si evolve in
un’antitesi nazionale.
Manuela Floris Sezione Appunti
Sociologia dei processi culturali 5. I CARATTERI DELLA CULTURA ANTROPOLOGICA
Il concetto scientifico di cultura, le cui radici risalgono al romanticismo tedesco della fine del 700, ha una
sua storia che inizia quando, tra 800 e 900, le varie scienze sociali (psicologia, sociologia,…) entrano in
campo e diffondono un nuovo modo di guardare all’uomo e alla società. Si afferma uno sguardo più
interessato a descrivere la realtà sociale e a riflettere sull’estrema varietà dei costumi, delle norme sociali,
delle tradizioni che caratterizzano le società umane.
Tutto ciò grazie ai viaggi e alle conquiste coloniali, dove i viaggiatori ritornavano con resoconti fotografici
di popolazioni “altre”.
È proprio la diversità dei costumi e delle abitudini di vita a formare il nuovo contenuto della nozione di
cultura che quindi arriva a comprendere l’enorme varietà dei costumi e delle abitudini locali. La cultura, di
conseguenza, non si applica più all’individuo, ma riguarda una collettività, né rappresenta più un ideale
normativo, ma il suo significato diviene descrittivo.
Le scienze sociali intendono pensare all’unità dell’umanità attraverso la diversità delle culture, ossia
attraverso abiti acquisiti e non attraverso razze biologicamente determinate.
L’antropologia culturale ha cercato di fondare la propria autonomia disciplinare sul concetto di cultura,
facendone il proprio oggetto specifico di ricerca.
Manuela Floris Sezione Appunti
Sociologia dei processi culturali 6. La definizione del concetto antropologico di cultura
Taylor (1871) elabora la prima definizione del concetto antropologico di cultura. Nelle sue opere si
riconosce l’esistenza di una cultura primitiva, ignorata dall’Illuminismo. Per lui il problema era quello di
rendere comprensibili fenomeni nuovi che, agli occhi degli occidentali civilizzati dell’epoca, potevano
sembrare comportamenti irrazionali e credenze ingenue.
Da questa prima definizione tayloriana, di tipo descrittivo, si possono individuare alcune componenti della
cultura e alcuni suoi caratteri fondamentali.
Le tre componenti principali sono:
11. ciò che gli individui pensano: la religione, la morale e il diritto, ossia i complessi di norme e di credenze
esplicite;
22. ciò che fanno: i costumi e le abitudini acquisite dall’essere umano per il fatto di vivere entro una data
comunità. Vengono comprese nella cultura azioni ordinarie che l’individuo compie nella vita quotidiana,
basate su regole abitudinarie e tradizionali;
33. i materiali che producono: gli artefatti, ossia i prodotti oggettivati del lavoro umano che comprendono
gli oggetti di culto e quelli d’uso quotidiano.
Manuela Floris Sezione Appunti
Sociologia dei processi culturali 7. I caratteri principali della cultura
Sono soprattutto tre. Innanzitutto la cultura è appresa. Tutto ciò che è frutto di apprendimento e non di
reazione geneticamente programmata appartiene alla cultura. Il fatto che la cultura sia irriducibile all’eredità
biologica e sia intesa come il frutto di un lungo e complesso processo di apprendimento sociale comporta
delle conseguenze.
Prima di tutto la cultura risulta essere qualcosa di specificatamente umano, che distingue l’uomo dagli
animali: l’uomo si differenzia dagli animali per la variabilità dei suoi costumi.
Questa nuova immagine subisce, tuttavia, delle modificazioni dovute allo sviluppo degli studi di etologia
animale. Si scopre la capacità di apprendere una vasta gamma di comportamenti da parte di molte specie
animali, soprattutto quelle più prossime a noi.
Più recentemente alcuni antropologi hanno spostato la linea di demarcazione cultura/natura individuandola
non nella capacità di apprendere, ma nella specifica capacità di apprendere a livello simbolico. Solo gli
esseri umani avrebbero la capacità di utilizzare una comunicazione simbolica, un linguaggio che produce un
significato anche in assenza del referente. Geertz afferma tutto questo (pag. 19).
Anche questa linea di demarcazione si è dimostrata meno netta del previsto. Gli studi su alcuni primati
hanno mostrato la capacità di questi animali di far uso di richiami simbolici che vengono appresi dai piccoli
della specie gradualmente e in modo simile ai neonati umani. Anche Levi-Strauss ha sostenuto questa tesi,
affermando che la differenza tra noi e gli animali non sia di qualità, ma di complessità e di grado di
organizzazione (pag. 19).
Rimangono notevoli le differenze di grado tra il linguaggio umano e i sistemi di comunicazione vocale degli
altri primati, per quanto riguarda la varietà dei simboli utilizzati, l’enorme capacità di combinare suoni
secondo regole definite e quindi anche di produrre un’infinita varietà di significati.
Il 2° carattere della cultura è che essa rappresenta la totalità dell’ambiente sociale e fisico che è opera
dell’uomo. Nel concetto di cultura rientra tutto ciò che l’uomo apprende e crea insieme ai membri della
propria comunità. Nella cultura rientrano quindi anche le istituzioni, come la famiglia, l’organizzazione
politica e il sistema economico. In questo significato esteso il concetto di cultura finisce per sovrapporsi a
quello di società. Il carattere totale della cultura comporta anche l’idea dell’individualità e organicità del
patrimonio culturale di ogni popolo. Ne deriva che ogni cultura possiede una propria unità e coerenza,
capace di integrare i diversi aspetti e ambiti in cui si esprime.
Un 3° carattere della cultura è quello della condivisione. Si ritiene che un fenomeno debba essere condiviso
da un gruppo per poter essere definito culturale. Si crede infatti che la cultura sia uniformemente distribuita
all’interno della società. Nonostante quello della condivisione non sia un assunto riferibile a tutte le ricerche
antropologiche (vedi Hannerz e il suo “pensiero distribuzionista”) rimane tuttavia di fondamentale
importanza.
Manuela Floris Sezione Appunti
Sociologia dei processi culturali 8. L'immagine di cultura
L’immagine fondamentale di cultura che emerge è quella di una totalità sociale omogenea e organica al suo
interno, che si differenzia in rapporto ad altre culture altrettanto omogenee e organiche. Questa immagine è
stata così pervasiva e influente perché l’antropologia ha privilegiato le popolazioni primitive, cioè quelle
società in scala ridotta che ruotano intorno alla piazza del villaggio. Hannerz ha descritto bene questo tipo di
società: si tratta di comunità “faccia a faccia” in cui gli individui interagiscono sempre tra di loro, molto
frequentemente e all’interno di un ambiente limitato geograficamente. Il flusso comunicativo è continuo in
quanto la divisione del lavoro è scarsa, ognuno commenta le azioni altrui e dispone dei commenti che gli
altri fanno delle proprie. Inoltre, tutti si conoscono a fondo fin dalla nascita e usano gli stessi linguaggi dalla
culla alla tomba senza rilevanti innovazioni. Le persone si assomigliano tra loro e il corso degli eventi si
ripete più o meno uguale a se stesso.
Manuela Floris Sezione Appunti
Sociologia dei processi culturali 9. L’IDEA DI CULTURA IN TRE TRADIZIONI
SOCIOLOGICHE
La sociologia, diversamente dall’antropologia, fin dai suoi esordi nella seconda metà dell’800, si proponeva
di essere una scienza generale dei fenomeni sociali, con l’intento di determinare la struttura della moderna
società industriale e dei processi di rapida e radicale trasformazione che l’avevano caratterizzata.
La cultura, così come è stata affrontata dall’antropolog, non poteva essere al centro degli interessi delle
principali scuole di pensiero, perché altri temi, come l’inurbamento, la riorganizzazione della politica e dello
stato, risultavo più importanti e urgenti.
Tuttavia, fin dall’inizio, i rapporti tra sociologia e antropologia furono abbastanza stretti. Da questi, nasceva
la necessità, da parte della sociologia, di rivedere il concetto antropologico di cultura alla luce dei risultati
empirici dello studio delle società moderne.
Manuela Floris Sezione Appunti
Sociologia dei processi culturali 10. LA SCUOLA DI CHICAGO: LA DIVERSITÀ CULTURALE
DELLA METROPOLI
La scuola di Chicago studiò l’analisi dei processi sociali innescati nelle metropoli americane dai flussi
ininterrotti di arrivo di immigrati soprattutto dal sud e dall’est dell’Europa.
William Thomas, ne “Il contadino polacco in Europa e in America”, scritto nel 1920 con Znaniecki, analizza
il processo attraverso cui la cultura di origine degli immigrati polacchi incide sul modo in cui si inseriscono
nella comunità di arrivo. Diventa cruciale il ruolo dell’interpretazione che l’individuo dà della situazione
oggettiva in cui si trova, derivante dal suo retroterra culturale.
Viene poi valorizzato un nuovo metodo di indagine sociologica, vicino a quello etnografico, basato su
materiale biografico, documenti personali di vario tipo e verbali di processi, che consentivano di descrivere
in una situazione naturale l’espressione di valori, rappresentazioni e credenze comuni.
Per capire i processi di inserimento e conflitto degli immigrati occorreva considerare il ruolo di mediazione
svolto dal sistema di atteggiamenti che ogni immigrato e ogni individuo porta con sé. La realtà sociale è
dunque oggettiva, ma in una certa maniera modificabile dal soggetto che la interpreta e la definisce secondo
i propri schemi.
Ne “Gli immigrati e l’America” del 1921, Thomas parla di patrimonio culturale come causa delle differenze
degli immigrati rispetto ai nativi. Tale patrimonio non è fisso e dato una volta per tutte, ma possiede un
carattere socialmente costruito che si forma all’interno della “definizione della situazione” interattiva e
processuale. Sempre in questa opera l’autore delinea la teoria dell’“uomo marginale”: egli è colui che
sperimenta un’incongruenza tra il sistema culturale della comunità da cui proviene e quello della società di
arrivo, vivendola come una duplice perdita: di status, ossia di riconoscimento del suo gruppo, e di senso del
proprio sé, ossia di riconoscimento del suo ruolo all’interno del gruppo. Thomas descrive la crisi che
sopraggiunge quando il modello culturale con cui l’immigrato interpretava il mondo non funziona più come
sistema indiscusso di orientamento, come abitudine irriflessa. Nel nuovo contesto sociale egli deve mettere
in discussione tutto ciò che per gli altri è invece dato per scontato. Per la prima volta viene messo in luce lo
stretto rapporto tra identità e cultura, tra concezione di sé e forme del riconoscimento sociale. Si fa strada
l’idea che preservare le radici e la memoria, attraverso il ruolo delle associazioni e della stampa, possa
essere un modo positivo di far fronte ai problemi di inserimento e di influire sui processi di riorganizzazione
sociale.
Alcuni anni dopo Robert e Helen Lynd danno avvio agli studi di comunità, volgendo la loro attenzione alla
città americana di medie dimensioni. Essi adottavano un metodo di studio etnografico, basato
sull’osservazione partecipante, e accettavano l’assunto che la vita complessa tipica della società americana
fosse riducibile agli stessi generi di attività principali riscontrabili in un villaggio, come guadagnarsi da
vivere, farsi una famiglia, educare i figli, …
Si basavano sull’idea che la comunità media fosse rappresentativa della cultura americana nel suo
complesso.
Il risultato più interessante fu che le grandi trasformazioni avvenute a livello tecnico ed economico dal 1890
al 1924 non si erano tradotte in un altrettanto imponente mutamento a livello culturale. Anzi, la popolazione
tendeva a resistere al nuovo ambiente accentuando il proprio conformismo.
Manuela Floris Sezione Appunti
Sociologia dei processi culturali 11. La diversità culturale della vita urbana americana
Park e gli altri studiosi di “microsociologia urbana” esplorarono la straordinaria diversità culturale della vita
urbana americana, accentuando gli aspetti conflittuali, le diversità di stili di vita, credenze e pratiche sociali
che caratterizzavano specifici gruppi o spazi sociali. Il programma di ricerca di Park era costruito su una
comprensione culturale della città (pag. 25). In altre parole “la città possiede una propria cultura”. Egli
mantiene il metodo etnografico e lo applica all’investigazione dei costumi e degli stili di vita che
caratterizzano l’organizzazione locale della città, ossia i diversi quartieri e aree, considerandoli come
vicinati, cioè reti di relazioni sociali con propri sentimenti, tradizioni e anche una propria storia.
Il vicinato perde gran parte dei caratteri di intimità e stabilità che possedeva in società meno complesse, in
conseguenza della rapidità e facilità dei mezzi di comunicazione e di trasporto. Restano però gruppi di
vicinato segmentati, aree di popolazione segregata, che riproducono stretti legami di intimità e di solidarietà
che sono l’esito della nuova distribuzione sociale in base all’etnia, alla classe sociale, all’occupazione
professionale. Park descrive la differenziazione culturale dei sobborghi a carattere occupazionale, delle
enclaves residenziali, dei ghetti di immigrati su base etnica come varianti della più ampia cultura
metropolitana, come città dentro la città.
Ma il quadro della città che emerge è profondamente diverso dai precedenti. I moderni mezzi di trasporto e
le nuove forme di comunicazione, insieme all’estensione dell’organizzazione industriale, hanno generato un
incremento enorme della mobilità della popolazione, creando possibilità di confronto e di scambio
impensabile pochi decenni prima.
Inoltre le relazioni primarie (rapporto diretto tra le persone) sono state in gran parte sostituite da relazioni
secondarie (non c’è compresenza fisica tra persone). Di conseguenza anche le forme di controllo sociale si
sono modificate. La pubblica opinione sostituisce il pettegolezzo che nel villaggio era il principale mezzo di
controllo sociale e di circolazione dell’informazione.
La sua efficacia era decisamente superiore in quanto penetrava nella vita privata delle persone, diventata
invece tabù nelle città moderne. Park identifica i tratti salienti della complessità culturale delle condizioni di
vita urbane nella moltiplicazione degli stimoli che bombardano gli individui e nella pluralizzazione dei
contatti e delle forme associative in cui ognuno è coinvolto contemporaneamente. Questa situazione genera
effetti di estrema individualizzazione e di sovra eccitamento psicologico.
Manuela Floris Sezione Appunti
Sociologia dei processi culturali 12. La teoria della socialità della mente e dell’identità
Negli stessi anni George Herbert Mead sviluppa una teoria complessa della socialità della mente e
dell’identità in cui l’aspetto simbolico della comunicazione umana è messo in primo piano. Per l’analisi
della cultura e dei processi di socializzazione alla cultura egli identifica il meccanismo centrale nell’uso di
simboli significativi attraverso i quali l’individuo impara ad assumere il ruolo degli altri, a divenire oggetto a
se stesso, a sviluppare il proprio pensiero. Il pensiero e il sé non si formano in solitudine attraverso un atto
introspettivo, ma scaturiscono dall’interazione con gli altri, quando, con il linguaggio, riusciamo a
richiamare in noi stessi il significato che quel gesto vocale evoca negli altri. Una struttura mentale matura e
un sé solido si ottengono quando siamo in grado di identificarci con una norma universale, con il modo di
pensare di tutta la comunità.
Manuela Floris Sezione Appunti
Sociologia dei processi culturali 13. LA SCUOLA FRANCESE DI SOCIOLOGIA: LA SOCIETÀ
COME COMUNITÀ SIMBOLICA
La tradizione centrale della sociologia, che ha coniato il termine stesso, nasce in Francia ed è legata al nome
del suo fondatore: Emile Durkheim (1858 – 1917).
Egli e la sua scuola, diversamente da quella americana, contribuirono alla costituzione dell’antropologia,
infatti, utilizzarono i dati etnografici ricavati dalle società più semplici per formulare una teoria generale
dell’origine e della funzione delle rappresentazioni collettive e del simbolismo sociale.
In realtà Durkheim non distingueva antropologia e sociologia in base all’oggetto di studio. L’antropologia
rappresentava la descrizione empirica delle società primitive. Sulla base dei dati etnografici, la sociologia
doveva poi produrre un’analisi teorica, formulare leggi generali capaci di spiegare il funzionamento della
società nel suo complesso, fosse questa tribale o moderna.
La distinzione non riguardava allora il campo di indagine, ma il tipo di analisi.
Durkheim era convinto che le società “primitive” fossero le più semplici perché le cose superflue non erano
ancora intervenute a modificarne l’essenza. I dati raccolti dagli etnografi rappresentavano quindi un
materiale importantissimo perché consentivano di mettere a nudo i rapporti tra società e religione, di
individuare il funzionamento della religione. Le religioni primitive, infatti, vengono studiate non per
cogliere la particolarità e la varietà delle credenze e pratiche culturali, ma per mettere a fuoco gli elementi
permanenti della religione (pag. 29).
L’autore, pur non usando mai il termine cultura, le attribuisce tuttavia un ruolo fondamentale nella sua
riflessione. Non solo perché studia la religione, le forme di classificazione, i valori e la morale ma
soprattutto perché per lui, la società, qualunque tipo di società, ha fondamentalmente un carattere simbolico.
Egli arriva a tale conclusione quando risponde a un quesito al quale molti studiosi del suo tempo cercavano
di rispondere: perché la società sta insieme e non si disintegra nella lotta di tutti contro tutti?
I pensatori liberali avevano teorizzato che ciò fosse dovuto al fatto che la società scaturisse dall’incontro
spontaneo tra individui razionali che perseguono i propri interessi sulla base di contratti liberamente
stipulati.
Durkheim riteneva questa risposta fragile e poco convincente.
La società si può basare sui contratti dei singoli individui solo se questi sono disposti a rispettarli. In altri
termini ciò richiede la presenza di una fiducia reciproca tra i contraenti, ossia l’esistenza di una solidarietà
precontrattuale. Non sono la razionalità e gli interessi a tenere unita la società ma qualcosa che viene prima e
che costituisce il loro fondamento.
Manuela Floris Sezione Appunti
Sociologia dei processi culturali 14. La dimensione simbolica come cemento della società
Simboli sono le credenze e i rituali condivisi, in quanto svolgono la duplice funzione di raffigurare la
società, di rappresentarla, e di consentire la comunicazione tra i suoi membri. Essi generano un consenso
morale e cognitivo che unisce gli individui, crea vincoli reciproci e consente loro di identificarsi in una
collettività che li trascende.
Ne “La divisione del lavoro sociale” Durkheim sostiene che il processo di differenziazione sociale, che
determina il passaggio da società di tipo meccanico a società di tipo organico, non comporta il deperimento
della dimensione simbolica della comunità sociale, ma soltanto un suo cambiamento. Le società di tipo
“meccanico” sono formate da piccole unità chiuse, tra loro simili, in cui l’individualità è poco sviluppata e
l’integrazione è garantita dal prevalere della coscienza collettiva, ossia da forti sentimenti, norme e valori
comuni. Nelle società di tipo “organico” predominano la specializzazione dei compiti e le regole
impersonali del mercato. In questo passaggio la coscienza collettiva subisce una trasformazione sia nella
forma sia nel contenuto, ma non scompare. Più si sviluppa la divisione del lavoro più la coscienza collettiva
diminuisce in volume, intensità e grado di determinatezza. Essa diventa più debole e meno capace di
uniformare i comportamenti individuali e di esercitare un rigido controllo sociale. Le regole di condotta e i
modelli di pensiero sono più generali e indeterminati. Cambia anche il contenuto della coscienza collettiva
che diventa sempre più secolarizzata, ossia meno definita da orientamenti religiosi e centrata su valori
individualistici. Inoltre divengono importanti quelle norme la cui violazione non prevede sanzioni di tipo
repressivo, ma implica misure di tipo restituivo, volte a riportare le relazioni turbate alla situazione
precedente.
Manuela Floris Sezione Appunti
Sociologia dei processi culturali 15. Le rappresentazioni collettive
Nelle opere successive l’autore sostituirà al concetto di coscienza collettiva, quello di “rappresentazioni
collettive”. Esse sono le forme del pensiero cognitivo, le credenze religiose, i miti, le norme e i valori
morali. La novità introdotta da questo concetto è l’idea che la cultura, oltre ad avere un carattere comune e
comunicabile, ha anche un carattere oggettivo e istituzionale. Le rappresentazioni collettive sono delle
istituzioni sociali. Il moderno individualismo perde la sua ambiguità in quanto si presenta come una vera e
propria norma morale che orienta i comportamenti degli individui. Le rappresentazioni collettive si
distinguono da quelle individuali, che sono stati mentali di natura psicologica, per il fatto che hanno
caratteristiche sui generis, relativamente autonome. Egli sostiene che esiste una parte non del tutto cosciente
della rappresentazione che è sentita come obbligatoria, che si impone cioè in maniera costrittiva e
vincolante. Questi caratteri, esteriorità e obbligatorietà, che definiscono ciò che per Durkheim sono fatti
sociali, costituiscono la prova che questi modi di pensare e agire non sono opera dell’individuo, ma derivano
da una fonte di autorità che lo oltrepassa. Il substrato da cui derivano non è il singolo individuo ma la
dinamica specifica che si viene a creare quando più individui si associano, entrando in relazione reciproca
(pag. 32).
Mauss riprende l’idea durkheimiana del carattere istituzionale e oggettivo del mito e, accostandolo al
linguaggio, ne fa un sistema simbolico istituzionalizzato, un comportamento verbale codificato che
trasmette, come la lingua, modi di classificare e di organizzare l’esperienza.
Per D. e la sua scuola la cultura assume un posto centrale nell’intera teoria sociologica. Se ne mette in luce il
duplice carattere, cognitivo e morale; si introduce l’idea che i concetti e le credenze operino entro contesti
sociali da cui dipendono; si insiste sul fatto che essi non esistono isolatamente ma sono il frutto di un’attività
cooperativa; se ne sottolinea il carattere istituzionale; si elabora la nuova idea che le norme e le categorie
mentali hanno bisogno del sostegno dei rituali per diffondersi e mantenersi.
Durkheim non è interessato a stabilire la verità o falsità di un concetto, diversamente da Comte pensava che
le credenze comuni a una società non contassero per il loro grado di verità, ma per il fatto di costituire un
elemento ordinatore e regolativo del comportamento individuale.
Con la scuola durkheimiana, la cultura assume una consistenza sua propria, che rende inutile o accessoria
l’analisi delle motivazioni, degli interessi, del significato soggettivo che l’attore sociale vi attribuisce.
Tuttavia l’autore non dà alla cultura un significato autonomo in quanto crede che la società non esista senza
gli individui e che le rappresentazioni collettive non esistano senza individui che le pensano. Piuttosto
metteva in evidenza che queste ultime hanno assunto un’oggettività e un’esteriorità del tutto particolare
rispetto agli individui che ne fanno uso e in parte le producono e le modificano.
Manuela Floris Sezione Appunti
Sociologia dei processi culturali 16. LA TRADIZIONE SOCIOLOGICA TEDESCA: IL
PROBLEMA DEL SIGNIFICATO E IL RUOLO ATTIVO DELLE
IDEE
Non si può parlare degli autori tedeschi che si sono occupati della cultura nell’epoca classica della
sociologia come di una scuola. Non si tratta infatti di un approccio unitario né vi è una figura dominante.
Il loro contributo allo studio della cultura si trova nel contesto storico e nazionale tedesco che risente
fortemente di due grandi dibattiti.
Manuela Floris Sezione Appunti
Sociologia dei processi culturali 17. Il dibattito metodologico
Il primo era un dibattito metodologico sulle modalità di comprensione dei fenomeni culturali, intesi come
l’intera gamma dei fenomeni storici e sociali. Il movimento storicistico tedesco rivendicava la diversità
qualitativa delle scienze dello spirito, sostenendo che in queste ultime non potessero esistere leggi universali
analoghe a quelle elaborate dalle scienze della natura. Al metodo nomotetico, tipico delle scienze naturali
volte alla costruzione di leggi generali, veniva contrapposto il metodo idiografico, orientato a descrivere i
fenomeni della vita storica e sociale così come si presentano nella loro individualità.
Le correnti di pensiero che facevano capo a Dilthey contrapponevano la spiegazione (causalità dei fatti
naturali) alla comprensione (significato dei fenomeni storico-sociali).
Sia Georg Simmel che Max Weber si collocano interamente all’interno di questo dibattito. Entrambi
assumono però una posizione originale e innovativa. Pur riconoscendo la distinzione tra scienze della natura
e scienze della cultura, vedono spiegazione e comprensione non come metodi contrapposti, ma come due
aspetti del medesimo processo conoscitivo.
Per Simmel le scienze, in qualunque campo operino, possono formulare delle ipotesi che valgono solo sino a
prova contraria e non possono aspirare a un ideale assoluto di verità.
Max Weber sostenne posizioni analoghe: conoscenza intuitiva e conoscenza causale non sono antitetiche; al
contrario la comprensione rappresenta il primo passo di un processo di imputazione causale. Le differenze
tra scienze della natura e della cultura non riguardano l’oggetto e nemmeno il metodo, ma gli scopi
conoscitivi del ricercatore. L’imputazione causale veniva dunque saldata con la ricerca dei significati
soggettivi che muovono l’azione sociale.
Gli esseri umani sono, per Weber, esseri culturali in quanto attribuiscono un significato al proprio
comportamento e le scienze della cultura non si occupano dell’intera realtà sociale, ma dell’ “agire sociale”
ossia “un agire che sia riferito all’atteggiamento di altri individui, e orientato nel suo corso in base a questo”.
Weber definisce la cultura come “una sezione finita dell’infinità priva di senso del divenire del mondo, alla
quale è attribuito senso e significato dal punto di vista dell’uomo”. Questa definizione ha un uso sia
metodologico che sostantivo.
Metodologicamente indica il modo in cui le scienze della cultura possono raggiungere l’oggettività
scientifica: è sulla base dei valori che lo scienziato sceglie il dato empirico. L’impulso a conoscere è
generato dai nostri valori (senza connotazione morale del termine).
Questa definizione ha anche un uso sostantivo, applicandosi allo studio dell’operare concreto della cultura:
agli individui in generale la realtà non si presenta come una collezione di fatti separati, ma come un contesto
dotato di significato. È perché gli individui attribuiscono un significato alla realtà che possono agire,
compiere a volte scelte radicali e modificare la propria esistenza. Ma perché un fatto acquisisca un
significato e sia in grado di influenzare e orientare l’azione dei soggetti deve rientrare in concezioni e
interpretazioni più ampie, in connessioni di senso condivise e riconosciute come buone e giuste.
Manuela Floris Sezione Appunti
Sociologia dei processi culturali 18. L'idealismo e il materialismo
Il secondo dibattito si concentra sulla controversia tra l’idealismo e il materialismo. Ad un polo troviamo le
filosofie idealiste (dalla filosofia di Platone, all'idealismo trascendentale di Fichte, Hegel) che pongono le
idee come principi per conoscere la realtà stessa, mentre all'altro polo abbiamo le filosofie materialiste, che
pongono a fondamento della realtà la materia.
A metà del XIX secolo, attraverso la critica di Marx all’idealismo della filosofia di Hegel, si sviluppò una
controversia sul ruolo dei fattori culturali. La questione in sostanza può essere così riassunta: se i fattori
culturali possiedano una loro autonomia relativa e siano quindi in grado di influenzare e modificare le
relazioni sociali o se, al contrario, rappresentino un riflesso della struttura economico-sociale.
Sia Weber che Simmel esposero la loro interpretazione riguardo questa controversia.
Weber polemizzò in molti suoi lavori con il determinismo economico del materialismo storico, con l’idea
cioè che le forme del pensiero, del diritto, della morale siano il prodotto delle condizioni economiche della
società. Tutta la sua opera può essere intesa come il tentativo di mostrare il ruolo cruciale svolto dalle
credenze e dai valori nell’orientare, in un senso piuttosto che in un altro, il comportamento delle persone.
Le ricerche di Weber sullo spirito del capitalismo, sul ruolo dell'etica protestante nel favorire lo sviluppo di
un comportamento economico nazionale, rappresentano casi concreti in cui applica un modello innovativo
originale del modo in cui la cultura si collega alla realtà sociale. Weber cerca, infatti, di sottrarsi al rischio di
criticare il materialismo in nome dell’idealismo e di un’interpretazione spiritualistica della storia. Il fatto di
aver messo in evidenza i fattori culturali della nascita del capitalismo ha solo un valore euristico, in quanto
consente di isolare una possibile causa che non esclude, tuttavia, la presenza anche di altre cause di tipo
economico, sociale o politico. È del tutto legittimo prendere in considerazione sia l’influenza dell’economia
sull’etica religiosa sia il rapporto inverso, ossia l’influenza dell’etica sullo sviluppo economico, a patto però
di non concepirlo in maniera univoca, ma come un condizionamento reciproco.
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Sociologia dei processi culturali 19. Simmel e il rapporto di causalità reciproca
Weber sostiene una reciproca influenza tra idee e società.
Anche per Simmel tra condizioni sociali e idee vi è un rapporto di causalità reciproca.
Ciò significa che le nostre idee non possono essere interamente indipendenti dalle condizioni sociali, ma che
non potrebbero ugualmente esserne dipendenti. Ciò nonostante non dobbiamo stupirci dell'influenza su tale
questione delle due teorie contraddittorie: idealismo e materialismo. Entrambe traducono la tendenza che
abbiamo a trasformare le relazioni di causalità circolari in relazioni unilaterali; entrambe contengono parti di
verità e allo stesso tempo, entrambe sono false, nonostante ciascuna delle due abbia ragione nei confronti
dell'altra.
Questa prospettiva teorica e metodologica accomuna Simmel a Weber e ha delle conseguenze importanti nei
confronti dell’analisi culturale, sull'approccio che inizia a delinearsi, nell'ambito tedesco, nei confronti
dell’analisi culturale. Innanzitutto viene precisato che la distinzione tra cultura e società è di tipo analitico,
riguarda cioè il livello concettuale e non la realtà ontologica. La cultura non è un “oggetto” ontologicamente
separato da altri, ma un concetto con cui classifichiamo i fenomeni sottolineandone gli aspetti per noi
importanti al fine della loro comprensione.
In secondo luogo, le credenze e i valori sono, per entrambi gli autori, una cultura collettiva, nel senso che si
tratta di rappresentazioni che non appartengono all’ambito privato, ma sono pubbliche. In questa direzione
dell'analisi di una nuova concezione del mondo e si va diffondendo in tutto l'Occidente moderno, procede
non sono la descrizione di Weber dello "spirito del capitalismo", ma anche Simmel, in “Filosofia del
denaro” procede in questa direzione. Egli si sofferma principalmente sul carattere simbolico del denaro nella
cultura moderna. Si tratta di un processo di progressiva dematerializzazione che non ha altra realtà se non
quella di simboleggiare le relazioni tra gli individui. Il denaro si è enormemente diffuso ma ha cambiato
natura: in sé non ha valore se non come mezzo di scambio, ma tende a trasformarsi in un valore in se stesso.
Si produce un’oggettivazione dei valori, per cui ciò che prima era un valore soggettivo, diventa una
proprietà delle cose in quanto tali. Ne risulta profondamente influenzato il pensiero umano, che diventa
sempre più intellettualizzato e individualista, attento a tutti gli aspetti della vita che si prestano ad essere
calcolati e quantificati.
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Sociologia dei processi culturali 20. Cultura oggettiva e cultura soggettiva
La cultura moderna, secondo Simmel, si manifesta in un’espansione senza precedenti della cultura
oggettiva: i prodotti dell’arte, della tecnica, degli oggetti d’uso domestico e dei consumi,…
Ma il soggetto che si rivolge ai contenuti della cultura oggettiva rimane frustrato perché non è più in grado
di incorporarli e farli propri, non è più capace cioè di farli diventare cultura soggettiva. La situazione è
descritta come “tragedia della modernità” in quanto il soggetto desidera quelle forme oggettivate ma queste
eccedono sempre le sue possibilità concrete di appropriazione.
Questa situazione deriva dalla crescente divisione del lavoro, che Simmel descrive in maniera diversa da
Durkheim, in quanto analizza l’individualismo prodotto dalla differenziazione sociale a cui l’individuo
contemporaneamente appartiene (pag. 39).
In 3° luogo viene meno l’equivalenza tra cultura e tradizione. La cultura non è solo consuetudine ma è
innovazione e implica un ruolo attivo delle idee. Questo punto differenzia l’impostazione di Durkheim da
quella di Weber rispetto alla cultura.
Nel primo, infatti, le rappresentazioni collettive sono viste come un sistema chiuso, statico e come prodotti
anonimi di forze e meccanismi sociali estranei agli attori, indipendentemente cioè dalla loro coscienza.
In Weber, invece, le concezioni del mondo e le idee hanno una loro logica e dinamica interna e sono
creazioni di individui e di gruppi sociali, intellettuali, movimenti religiosi,…
Per Weber la cultura riveste un ruolo attivo, e di mediazione tra gli interessi degli strati sociali e l’agire
sociale, nel senso che orienta questi interessi in una direzione piuttosto che in un’altra.
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Sociologia dei processi culturali 21. Sociologia della cultura
In Germania, negli anni 20, emerse il tentativo di dare vita a una sociologia della cultura e a una sociologia
della conoscenza, intese spesso come equivalenti. Tra gli autori principali ricordiamo Alfred Weber, fratello
minore di Max, Karl Mannheim e Max Scheler, ricordati per aver contribuito a questa fondazione.
Per A. Weber premessa necessaria della sociologia della cultura è il riconoscimento dell’esistenza di due
mondi diversi:
1. l’universo oggettivo e universale delle forme dell’elaborazione scientifica, tecnica ed organizzativa;
2. l'universo soggettivo e particolare dell’elaborazione artistica, religiosa, letteraria, rituale.
Il materiale grezzo dell’esperienza nel primo mondo è plasmato dalla ragione e dall’intelletto, nel secondo è
creato dal sentimento, precisandosi quindi come una sfera essenzialmente espressiva ed emozionale. Per
definire questi due ambiti o sfere distinte e opposte Weber si serve dell’antitesi tra cultura e civilizzazione.
Questa opposizione inizialmente contrapponeva la concezione romantica a quella illuministica della storia,
mentre in seguito, alla fine dell'800 descrive la crescente razionalizzazione e meccanizzazione prodotte
dall’affermarsi del progresso tecnico-scientifico in opposizione ai valori spirituali della cultura di un popolo.
In Weber la contrapposizione tra comunità e società si caratterizza come contrapposizione tra il mondo
culturale, vicino ai sentimenti e ai destini vitali degli individui, e il mondo civilizzato, in cui il pensiero
tecnico-scientifico della natura produce una razionalizzazione oggettiva e impersonale, estranea agli affetti e
alla vita emozionale delle persone.
Ne consegue che solo la civilizzazione si sviluppa secondo un andamento progressivo; al contrario i prodotti
della cultura non sono ordinabili in alcuna scala, si possono ripresentare nella stessa società in periodi
diversi o contemporaneamente in società diverse, e non sono in questo senso confrontabili. Per la cultura
non si può parlare di progresso ma solo di “fluttuazione” e “movimento”.
Con questo modo di intendere la cultura Alfred Weber non poteva che entrare in polemica col fratello, per
quanto riguarda il modo stesso di concepire la cultura.
Mentre per Alfred la cultura si configura come un oggetto a sé stante, per Max invece la cultura è un campo
di ricerca costruito in base a un’operazione di selezione e di attribuzione di significato. Per quest’ultimo non
sarebbe possibile distinguere mondo della cultura e mondo della civilizzazione, né tantomeno attribuire ad
uno un valore inferiore all’altro.
Manuela Floris Sezione Appunti
Sociologia dei processi culturali